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sabato 23 gennaio 2010

Si alla private label o marca commerciale

C’è una spiegazione per il ritardo storico dello sviluppo della Grande Distribuzione in Italia e l’ha ricordata il patron di ESSELUNGA, Bernardo Caprotti, in una recente intervista al Sole 24 Ore: fino all’inizio degli anni ’90 la GD non la volevano i partiti, ne quelli di centro (DC) ne quelli di sinistra PCI. Gli uni dovevano difendere i dettaglianti, gli altri le cooperative.

Lo sviluppo della marca commerciale dei supermercati anche in Italia segue una logica già ampiamente sperimentata in tanti altri paesi occidentali: l’insegna è una marca percepita in modo positivo dal consumatore ed un prodotto che porta quel nome (o anche uno di fantasia di recente introduzione) merita fiducia anche se costa meno della concorrenza della marca industriale affermata

Per il retailer la propria marca offre l’occasione per sfuggire ai dictat dei leader industriali ed anche quello di procurare alla propria clientela vantaggi immediati ed attuali come il prezzo più contenuto ma in prospettiva anche vantaggi di più ampio raggio.

Una ricerca sul consumatore presentata a SO FRESH Bologna certifica incrementi di quota di mercato costanti che partono sì da numeri bassi ma sono comunque a due cifre. Aumenti del 10-12 % annui hanno portato nel giro di pochi anni la quota di mercato a livello nazionale agli odierni 11-12 % con punte ben maggiori se si considera che oltre il 50 % del fatturato della marca commerciale viene operato dai tre distributori più importanti.

Non c’è dubbio che i quantitativi che possono essere messi in campo giocano un ruolo preponderante e pertanto il gap fra piccoli e grandi sta aumentando. Il piccolo non offre economie di scala degne di nota e fa più fatica a trovare partner capaci di assecondarlo in modo giusto. Anche il prezzo del marketing necessario a sostenere il lancio e la promozione della marca commerciale richiedono investimenti importanti che non sempre sono alla portata dell’operatore marginale o poco centralizzato.

Come fa infatti una centrale di GDO a sostenere i marchi dell’insegna se non tutti i soci si impegnano a seguire e sostenere le politiche aziendali fin dal primo momento?

E’ vero quanto ha sostenuto il sociologo Giampaolo Fabris che questo periodo di crisi rappresenta vento in poppa per la marca commerciale e che pertanto un incremento del 10-12 %, molto statico, non testimonia un grande successo. In pratica, sostiene Fabris, il settore ha perso un’occasione d’oro per fare un grande salto in avanti. Finora è mancata la convinzione, l’investimento in ricerca ma anche la cultura. Perché la costruzione di una propria marca esige dal proprietario un approccio diverso da quello tradizionale che è soprattutto quello della convenienza. C’è bisogno di tutte leve del marketing che vanno oltre il prezzo e partono dalla ricerca di prodotto e sul consumatore per arrivare allo sfruttamento di tutte le sfaccettature della comunicazione.

E’ stato sottolineato anche che una politica di private label presuppone l’esistenza o la creazione di un gruppo di fornitori attrezzati e motivati con i quali fare un percorso d’insieme sulla base di strategie a medio-lungo termine. Sarebbe impossibile edificare un futuro senza una visione lungimirante che mettesse al centro il concetto di marca piuttosto che quello della versione economica di un prodotto. Il consumatore è pronto a dare credito a una marca commerciale ben presentata perché nell’era di Internet ha avuto modo di trovare spesso qualità anche laddove il prezzo non la segnalava. E’ dunque diventato più aperto a nuove scelte ed anche a dar credito a nuovi soggetti se la percezione della marca è stata positiva in passato e se questa percezione viene rafforzata con concetti nuovi che si sono fatti strada ultimamente. Pensiamo solo all’ecosolidale, al salutistico, al biologico e all’attenzione all’ambiente. In questa categoria c’è da segnalare l’ultimo arrivato: Il “freefrom” che vuol dire esente da….. sale, zucchero, colesterolo, glutine, OGM ecc ecc.

Si vede che a certe condizioni c’è tanto campo per ulteriori rapidi sviluppi positivi della marca di proprietà del distributore.

lunedì 11 gennaio 2010

Il concetto di KM Zero a quanti km si riferisce?

Ho commissioonato a una collaboratrice molto brava la traduzione di un articolo scritto da Sophie Bambridge e pubblicato recentemente dal FRESH PRODUCE JOURNAL di Londra. In Inghilterra l'opinione pubblica è stata sensibilizzata nel 2007 quando organizzazioni ambientali hanno denunciato l'inquinamento prodotto dai lunghi trasporti sopportati da molti prodotti ortofrutticoli di controstagaione che vengono importati dall'emisfero sud.

Da lì si è sviluppata la teoria del KM Zero ed in definitiva anche l'enfasi sul consumo della produzione locale inglese. L'articolo è un esame di tutti gli aspetti della questione, siano essi positivi che negativi, è scritto senza preconcetti e rispecchia in buona parte anche la situazione italiana:


PROVENIENZA LOCALE: FATTIBILE OPPURE NO?
Fonte: FPJ – Dicembre 2009


Quando si discute la situazione della produzione locale, ci si pone il seguente quesito: “ la Gran Bretagna è in grado di sostenersi autonomamente come nazione oltre alle zone locali che danno da sostentamento alle popolazioni locali? “

Se analizziamo la situazione di un secolo fa, molte persone in U.K. erano affamate o malnutrite ed a malapena restava qualcosa da distribuire sul mercato.
Ci sono una serie di fattori che devono essere considerati quando si tratta questo argomento; in particolare, per quanto riguarda i prodotti freschi:ad esempio il costo reale delle consegne locali, la scala di riferimento, la percezione del consumatore della stagionalità e della localizzazione, il senso del “locale”, quali sono i consumatori disposti a pagare per i prodotti che sono stati coltivati o provenienti dal locale. La lista è lunga.

Il primo punto che deve essere preso in considerazione riguarda il livello di localizzazione e come questo può essere raggiunto. Per qualcuno questo concetto è limitato alla produzione proveniente da un’azienda agricola vicina mentre per altri può essere estesa quanto tutta la produzione britannica. Però, sia per i consumatori che per i fornitori, esistono vari livelli di regionalità, differenti limiti e protocolli che risultano di difficile comprensione. Sarebbe forse più semplice ottenere la produzione locale se si è il mercato locale stesso. Di frequente, infatti, questi mercati sono regolamentati cosicché solo un prodotto coltivato all’interno di quel territorio circoscritto può essere venduto.
Questa procedura di vendita costituisce la via più semplice per raggiungere la produzione locale di prodotti che siano freschi e che rappresentino la “visione” del locale.
Tuttavia si è costretti ad imporre prezzi più alti per rendere il sistema economicamente redditizio. Infatti, la maniera più probabile per i consumatori di comperare prodotti locali o regionali avviene all’interno dei supermercati.

Il secondo punto riguarda il ruolo dei supermercati che non è da sottovalutare.
Waitrose sostiene di disporre attualmente di 1200 prodotti locali nel proprio inventario - questo localmente significa che il prodotto proviene da un raggio di max 30 miglia da quel supermercato. Allo stesso modo Morrison ha dichiarato che il 75% della verdura che vende durante l’anno è di provenienza inglese.
Il problema del locale inizia a sorgere se si considerano però variabili i confini della produzione locale e complicate le questioni dell’approvvigionamento sulle vendite.

Altra questione riguarda il fatto che i consumatori riescano a comprendere realmente cosa si intenda per stagionalità e cosa si possa concretamente produrre in U.K. durante l’anno.
Come riportato da un recente sondaggio realizzato da FPJ, solo il 2% degli intervistati sanno che gli asparagi sono nativi dell’U.K. e solo il 50% sanno qual’e’ la stagione di produzione mentre il restante 25% credono che le patate si producano in U.K.
Sembrerebbe che nonostante il lavoro condotto finora, i consumatori non siano ancora in grado di capire cosa, quando e come possano acquistare prodotti locali. Pertanto, vi è un’enorme operazione di formazione (vedi ad esempio le giornate delle fattorie aperte realizzate dall’Organizzazione Love British Foods) che deve essere intrapresa prima che la maggioranza dei consumatori inglesi cominci a comperare e mangiare solo prodotti “made in U.K.” ed in senso lato di provenienza locale.


Aspetto di rilevante importanza riguarda il fatto che, mentre l’industria si sforza di creare e di contribuire a questo apprezzamento e percezione tra i consumatori di ciò che i produttori fanno e del cibo che si mangia, dall’altro lato si deve affrontare la questione dei costi della fornitura della produzione locale ai rivenditori. I mercati all’ingrosso si trovano ubicati tipicamente in grandi città e producono frequentemente al di fuori del tessuto urbano. I supermercati possono trarre beneficio da questo ampio raggio d’azione per l’approvvigionamento ma ciò non avviene senza costi: ad esempio, i costi per tipologie di imballaggio differenti presenti nei supermercati ed il fatto che non è possibile fornire direttamente i magazzini. Quest’ultimo aspetto nega la proclamazione della produzione locale realizzata dai venditori al dettaglio, con un aumento delle distanze alimentari ed un conseguente aumento del costo reale del locale. A tal proposito, la fattibilità a lungo termine della provenienza locale dei prodotti viene messa in discussione. Bisognerebbe che i consumatori, i dettaglianti ed i fornitori apportassero delle modifiche nella dieta, nei processi e nell’economia di riferimento poiché il costo della produzione in U.K. resta assai elevato. Tutte le parti in causa dovrebbero capirlo ed essere disposte a pagare un po’ di più per questo.

Conclusioni: l’idea del produrre e mangiare locale dovrebbe essere promossa e sostenuta caldamente. Tuttavia, questo non dovrebbe generare una sovrabbondanza di prodotti importati (ad esempio la patata); in realtà, se non esistesse il mercato import- export tanti prodotti non sarebbero conosciuti ai più.
Per fare in modo che ci sia maggiore consapevolezza e conoscenza, bisogna fornire maggiori informazioni ai consumatori oltre alla ricerca di soluzioni per abbattere i costi.
I supermercati avrebbero dovuto giocare un ruolo chiave nell’analisi dei loro sistemi attuali per analizzare le migliorie che dovrebbero essere fatte per facilitare l’espansione del locale.
L’opportunità di mangiare prodotti freschi locali dovrebbe essere colta in modo inequivocabile oltre alla percezione che vi è un livello di qualità superiore del cibo in ogni momento dell’anno, assaporando così il piacere di avere il meglio.
In definitiva, la realtà della provenienza locale è ancora in fase di definizione, in particolare se si va a scapito delle colture per le stagioni seguenti e per il gusto.
Certo è che si tratta di un tema di fondamentale importanza e che l’industria continuerà senza dubbio a lavorare per migliorare i metodi ed inserire la questione nei progetti per una crescita futura.